Testimonianze esclusive e condivisioni
Di seguito trovi una lista, in continuo aggiornamento, di testimonianze e pensieri raccolti dalla nostra Associazione. Testimonianze rilasciate da alcuni sopravvissuti all'Olocausto, dai loro familiari o da appassionati, che attraverso incontri, recensioni, progetti, film, libri e molto altro s'impegnano a non dimenticare, a tramandare la storia di Anne Frank e a dare una voce alla Storia.
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Stefano Ravaglia
(Recensione de Il Diario di Anne Frank e sostenitore della nostra Associazione)
(Recensione de Il Diario di Anne Frank e sostenitore della nostra Associazione)
10 dicembre 2015
Cara Anne, noterai qualcosa di molto familiare in questo pezzo che sto scrivendo, a partire dalla data che fa da incipit. Già, sembra proprio la pagina di un diario, come quello che scrivevi tu. Mi sembrava un modo originale per iniziare una ottima recensione. Ma come di cosa? Del tuo diario appunto. In barba a ciò che pensavi: “A chi possono interessare i racconti di una tredicenne?”. Sono passati 70 anni da quando te ne sei andata, e devi sapere che i tuoi racconti hanno interessato molte persone. Moltissime. Anne, ce l’hai fatta! Il tuo diario è diventato un libro, che ho appena finito di leggere e che non ha fatto altro che lasciarmi un mare di sensazioni ed emozioni. Proprio come desideravi, seppur tale desiderio era celato dietro a un velo di scetticismo. E’ stato tradotto in 70 lingue e ha venduto milioni di copie. Quello che hai scritto non sono semplici svolazzi adolescenziali, ma una serie di messaggi chiusi in una bottiglia che è arrivata fino a noi: di pace, di speranza, di umiltà, di autocritica, di ottimismo, di entusiasmo. Hai valorizzato la vita come poche persone sanno fare, lo hai fatto nei pochi anni della tua breve esistenza al contrario di persone che campano cent’anni e non ci riescono mai. E, al contrario mio, che scrivo pigiando i tasti di un computer (una invenzione che può essere croce e può essere delizia ai nostri tempi Anne, credimi) al sicuro della mia abitazione, senza timore che qualcuno faccia irruzione e mi porti via, tu l’hai fatto addirittura partendo con un handicap, ossia la clandestinità forzata per sfuggire all’assurdo caos del mondo che ti circondava. Sono sicuro, che dovunque sarai, avrai continuato a dedicarti alla tua grande passione, la scrittura; sarai diventata una straordinaria comunicatrice su carta e penna, avrai deliziato il paradiso con i tuoi “Racconti dall’Alloggio segreto”. Sai, anche a me piace scrivere e leggere, ed è un aspetto in cui mi sono davvero rivisto leggendo le righe che avevi buttato giù durante la tua reclusione. Di sicuro quel mondo non era sano, ma ti posso certificare che anche oggi non ce la passiamo bene. Non saresti tanto entusiasta nemmeno della situazione odierna. Da quei giorni degli anni ’40 di acqua ne è passata sotto ai ponti, ma si vede che all’uomo piace fare la guerra. Ce ne sono state altre, con il loro carico di vittime e un desolante lascito di povertà e macerie. Ma tutti noi, come scrivevi tu, continuiamo a credere nella “intima bontà dell’uomo”.
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Cara Anne, noterai qualcosa di molto familiare in questo pezzo che sto scrivendo, a partire dalla data che fa da incipit. Già, sembra proprio la pagina di un diario, come quello che scrivevi tu. Mi sembrava un modo originale per iniziare una ottima recensione. Ma come di cosa? Del tuo diario appunto. In barba a ciò che pensavi: “A chi possono interessare i racconti di una tredicenne?”. Sono passati 70 anni da quando te ne sei andata, e devi sapere che i tuoi racconti hanno interessato molte persone. Moltissime. Anne, ce l’hai fatta! Il tuo diario è diventato un libro, che ho appena finito di leggere e che non ha fatto altro che lasciarmi un mare di sensazioni ed emozioni. Proprio come desideravi, seppur tale desiderio era celato dietro a un velo di scetticismo. E’ stato tradotto in 70 lingue e ha venduto milioni di copie. Quello che hai scritto non sono semplici svolazzi adolescenziali, ma una serie di messaggi chiusi in una bottiglia che è arrivata fino a noi: di pace, di speranza, di umiltà, di autocritica, di ottimismo, di entusiasmo. Hai valorizzato la vita come poche persone sanno fare, lo hai fatto nei pochi anni della tua breve esistenza al contrario di persone che campano cent’anni e non ci riescono mai. E, al contrario mio, che scrivo pigiando i tasti di un computer (una invenzione che può essere croce e può essere delizia ai nostri tempi Anne, credimi) al sicuro della mia abitazione, senza timore che qualcuno faccia irruzione e mi porti via, tu l’hai fatto addirittura partendo con un handicap, ossia la clandestinità forzata per sfuggire all’assurdo caos del mondo che ti circondava. Sono sicuro, che dovunque sarai, avrai continuato a dedicarti alla tua grande passione, la scrittura; sarai diventata una straordinaria comunicatrice su carta e penna, avrai deliziato il paradiso con i tuoi “Racconti dall’Alloggio segreto”. Sai, anche a me piace scrivere e leggere, ed è un aspetto in cui mi sono davvero rivisto leggendo le righe che avevi buttato giù durante la tua reclusione. Di sicuro quel mondo non era sano, ma ti posso certificare che anche oggi non ce la passiamo bene. Non saresti tanto entusiasta nemmeno della situazione odierna. Da quei giorni degli anni ’40 di acqua ne è passata sotto ai ponti, ma si vede che all’uomo piace fare la guerra. Ce ne sono state altre, con il loro carico di vittime e un desolante lascito di povertà e macerie. Ma tutti noi, come scrivevi tu, continuiamo a credere nella “intima bontà dell’uomo”.
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Dario Pezzella
(autore del libro Le pagine bianche di Anne Frank il cui ricavato sarà donato alla nostra Associazione)
(autore del libro Le pagine bianche di Anne Frank il cui ricavato sarà donato alla nostra Associazione)
Cara Kitty,
sono rimasto stupito e ammirato di tutte le lodevoli iniziative promosse dall’Associazione “Un ponte per Anne Frank” e vorrei anch’io parteciparvi, con l’analogo spirito che vi spinge a divulgare la storia di Anne Frank e della Shoah, affinché nessuno dimentichi.
Orbene, dopo aver letto solo in età matura il Diario più famoso della storia, ne sono rimasto folgorato, tanto che ho voluto allargare le mie conoscenze sull’autrice e sulla sua famiglia. Per farla breve, non so come e non so perché, sono riuscito a portare a termine un’impresa che ha dell’assurdo: ho osato scrivere il seguito del Diario di Anne Frank e, proprio come il suo primo Diario regalo del padre Otto, gliene farò idealmente dono il prossimo dodici giugno, in occasione del suo ottantaseiesimo compleanno. Il libro si intitola: “Le pagine bianche di Anne Frank” e sarà pubblicato su “www.ilmiolibro.it”. Vorrei presentartene uno stralcio, in modo che se ne possa capire il senso e l’impostazione. Il ricavato netto di questa edizione sarà devoluto proprio all’Associazione “UN PONTE PER ANNE FRANK”. Non ho velleità a riguardo, consideralo solo un atto di amore nei confronti di Anne, che si è impossessata del mio cuore.
sono rimasto stupito e ammirato di tutte le lodevoli iniziative promosse dall’Associazione “Un ponte per Anne Frank” e vorrei anch’io parteciparvi, con l’analogo spirito che vi spinge a divulgare la storia di Anne Frank e della Shoah, affinché nessuno dimentichi.
Orbene, dopo aver letto solo in età matura il Diario più famoso della storia, ne sono rimasto folgorato, tanto che ho voluto allargare le mie conoscenze sull’autrice e sulla sua famiglia. Per farla breve, non so come e non so perché, sono riuscito a portare a termine un’impresa che ha dell’assurdo: ho osato scrivere il seguito del Diario di Anne Frank e, proprio come il suo primo Diario regalo del padre Otto, gliene farò idealmente dono il prossimo dodici giugno, in occasione del suo ottantaseiesimo compleanno. Il libro si intitola: “Le pagine bianche di Anne Frank” e sarà pubblicato su “www.ilmiolibro.it”. Vorrei presentartene uno stralcio, in modo che se ne possa capire il senso e l’impostazione. Il ricavato netto di questa edizione sarà devoluto proprio all’Associazione “UN PONTE PER ANNE FRANK”. Non ho velleità a riguardo, consideralo solo un atto di amore nei confronti di Anne, che si è impossessata del mio cuore.
Mercoledì 17 febbraio 1943
Ieri era il sedici febbraio ed è stato il compleanno di Margot. La mia cara sorellina ha compiuto diciassette anni ed è sempre più prossima all’età adulta. Devo dire che in questo è stata molto precoce dimostrando, sin dalla pubertà, di essere riuscita da subito a raggiungere un certo equilibrio e soprattutto la maturità, cosa che non è ancora riuscita alla sottoscritta! Per il suo primo genetliaco in clandestinità non è stata trattata poi tanto male: io l’ho coccolata preparandole la colazione e portandogliela a letto. Da Miep ha ricevuto una torta di mele, da mamma una sottoveste con dei calzettoni, un quaderno per il suo diario da Kleiman, un sacchetto di noci da Peter e per finire delle vitamine, un libro di ostetricia e un kit per la pulizia degli occhiali.
Al momento di spegnere le candeline, in considerazione della scarsità di regali, le è stato chiesto di esprimere un desiderio: non di quelli che però sono congiunti a generiche aspirazioni future, nossignore, ma di quelli riguardanti un’ambizione immediata e concreta, da esaudire con la gentile collaborazione di tutti gli inquilini. Siamo rimasti tutti stupiti dalla fantasia di Betti, tanto è stata audace nella richiesta! Ma ormai avevamo promesso e le promesse vanno mantenute ad ogni costo!
Per pura combinazione, il suo compleanno quest’anno è capitato giusto a cavallo tra il “digiuno di Ester” e “Purim” -la Festa delle Sorti- che è la più gioiosa delle ricorrenze ebraiche. In molte comunità c’è la consuetudine di banchettare con cibi e dolci prelibati e i bambini amano travestirsi un po’ come si fa durante il Carnevale. Prendendo al volo questa fortunata coincidenza, Margot ha deciso che il giorno dopo -che poi sarebbe oggi- tutti i pensionati del retro-bottega di Prinsengracht si sarebbero dovuti scambiare i propri ruoli per l’intera giornata, lasciando alla “sorte” la scelta dei travestimenti, da eseguirsi con lo scambio vero e proprio degli abiti di scena! Mi è parsa da subito un’idea divertentissima, per quanto imbarazzante potesse essere per gli adulti.
Già immaginavo Petronella nei panni della sua più impertinente antagonista, Anne. Tra gli adulti c’è stato un momento di panico, ho letto nei loro occhi un lampo di preoccupazione e d’impaccio. Ma tant’è, il latte ormai era versato! Abbiamo scritto dei bigliettini con i nostri nomi, affidando a Peter l’onere della scelta, pescandoli dal cappello di papà. Il destino si è così pronunciato: io avrei preso il posto di mia sorella, Pim quello di Kerli, mamma si sarebbe scambiata i panni di Putti e lo stesso avrebbero fatto Peter e Pfeffer. Credo che la permuta peggiore sia stata di gran lunga quella toccata a mio padre, che ha dovuto indossare i vestiti di Petronella e occuparsi delle faccende domestiche! In generale c’è stato da morire dal ridere, soprattutto quando ci siamo rimirati l’un con l’altro, come in uno specchio magico. Pfeffer, nei sacrificatissimi abiti di Peter, non riusciva a muoversi, a evitare strappi indesiderati, ma l’imbarazzo più grande è stato vedere Pim e Van Pels nei panni delle due massaie e a piedi scalzi, per giunta! Io sono stata condannata a tacere per gran parte del giorno, per essere fedele all’indole e al comportamento di Margot, ma in realtà ho riso tutto il tempo delle buffe smorfie di papà, che incarnava perfettamente il personaggio scorbutico della madama. Anche Putti Van Pels si è dato da fare, d’altra parte non ho mai taciuto che quand’è di buon umore, riesce a essere un’ottima compagnia! L’unico che non ha reso onore al festeggiamento è stato il serissimo dott. Pfeffer: non ha fatto che sbuffare, mantenendo il broncio fino all’ora di cena…che individuo noioso! Insomma, ci siamo divertite moltissimo, è stato forse il giorno più allegro da quando viviamo in clandestinità e per diverse ore siamo riusciti a tenerci alle spalle gli alleati, le bombe e la guerra!
Dario Pezzella
Ieri era il sedici febbraio ed è stato il compleanno di Margot. La mia cara sorellina ha compiuto diciassette anni ed è sempre più prossima all’età adulta. Devo dire che in questo è stata molto precoce dimostrando, sin dalla pubertà, di essere riuscita da subito a raggiungere un certo equilibrio e soprattutto la maturità, cosa che non è ancora riuscita alla sottoscritta! Per il suo primo genetliaco in clandestinità non è stata trattata poi tanto male: io l’ho coccolata preparandole la colazione e portandogliela a letto. Da Miep ha ricevuto una torta di mele, da mamma una sottoveste con dei calzettoni, un quaderno per il suo diario da Kleiman, un sacchetto di noci da Peter e per finire delle vitamine, un libro di ostetricia e un kit per la pulizia degli occhiali.
Al momento di spegnere le candeline, in considerazione della scarsità di regali, le è stato chiesto di esprimere un desiderio: non di quelli che però sono congiunti a generiche aspirazioni future, nossignore, ma di quelli riguardanti un’ambizione immediata e concreta, da esaudire con la gentile collaborazione di tutti gli inquilini. Siamo rimasti tutti stupiti dalla fantasia di Betti, tanto è stata audace nella richiesta! Ma ormai avevamo promesso e le promesse vanno mantenute ad ogni costo!
Per pura combinazione, il suo compleanno quest’anno è capitato giusto a cavallo tra il “digiuno di Ester” e “Purim” -la Festa delle Sorti- che è la più gioiosa delle ricorrenze ebraiche. In molte comunità c’è la consuetudine di banchettare con cibi e dolci prelibati e i bambini amano travestirsi un po’ come si fa durante il Carnevale. Prendendo al volo questa fortunata coincidenza, Margot ha deciso che il giorno dopo -che poi sarebbe oggi- tutti i pensionati del retro-bottega di Prinsengracht si sarebbero dovuti scambiare i propri ruoli per l’intera giornata, lasciando alla “sorte” la scelta dei travestimenti, da eseguirsi con lo scambio vero e proprio degli abiti di scena! Mi è parsa da subito un’idea divertentissima, per quanto imbarazzante potesse essere per gli adulti.
Già immaginavo Petronella nei panni della sua più impertinente antagonista, Anne. Tra gli adulti c’è stato un momento di panico, ho letto nei loro occhi un lampo di preoccupazione e d’impaccio. Ma tant’è, il latte ormai era versato! Abbiamo scritto dei bigliettini con i nostri nomi, affidando a Peter l’onere della scelta, pescandoli dal cappello di papà. Il destino si è così pronunciato: io avrei preso il posto di mia sorella, Pim quello di Kerli, mamma si sarebbe scambiata i panni di Putti e lo stesso avrebbero fatto Peter e Pfeffer. Credo che la permuta peggiore sia stata di gran lunga quella toccata a mio padre, che ha dovuto indossare i vestiti di Petronella e occuparsi delle faccende domestiche! In generale c’è stato da morire dal ridere, soprattutto quando ci siamo rimirati l’un con l’altro, come in uno specchio magico. Pfeffer, nei sacrificatissimi abiti di Peter, non riusciva a muoversi, a evitare strappi indesiderati, ma l’imbarazzo più grande è stato vedere Pim e Van Pels nei panni delle due massaie e a piedi scalzi, per giunta! Io sono stata condannata a tacere per gran parte del giorno, per essere fedele all’indole e al comportamento di Margot, ma in realtà ho riso tutto il tempo delle buffe smorfie di papà, che incarnava perfettamente il personaggio scorbutico della madama. Anche Putti Van Pels si è dato da fare, d’altra parte non ho mai taciuto che quand’è di buon umore, riesce a essere un’ottima compagnia! L’unico che non ha reso onore al festeggiamento è stato il serissimo dott. Pfeffer: non ha fatto che sbuffare, mantenendo il broncio fino all’ora di cena…che individuo noioso! Insomma, ci siamo divertite moltissimo, è stato forse il giorno più allegro da quando viviamo in clandestinità e per diverse ore siamo riusciti a tenerci alle spalle gli alleati, le bombe e la guerra!
Dario Pezzella
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Laura Paggini
(autrice del libro Pesante come una piuma)
(autrice del libro Pesante come una piuma)
IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI ROCCATEDERIGHI - Accendere i riflettori su una verità dimenticata
Il 24 Novembre 1943 Alceo Ercolani, Capo della Provincia di Grosseto, comunica al Ministero dell’Interno l’istituzione di un campo di concentramento ebraico a Roccatederighi, comune di Roccastrada in provincia di Grosseto. Quello stesso giorno il Maresciallo di Polizia Gaetano Rizziello, da lui nominato direttore del campo e il Vescovo di Grosseto Monsignor Paolo Galeazzi avevano firmato il contratto con il quale quest’ultimo cedeva al Capo della Provincia un’ala della sede estiva del seminario vescovile. E’ un regolare contratto di affitto, ove sono minuziosamente elencate tutte le attrezzature e il mobilio di cui la sede dispone e nel quale viene pattuito un canone di locazione di 5.000 lire mensili, cui si aggiungono lo stipendio di 300 lire per ognuna delle cinque suore adibite alla cura della dispensa e della cucina e a garanzia della disciplina nelle camerate delle donne e 600 lire per i due uomini di fatica. Nel contratto, redatto in forma di scrittura privata con valore di atto pubblico e registrato successivamente, il 14 aprile 1944, colpisce la frase: “ L’Ecc. Mons. Paolo Galeazzi dietro invito motivato dalle emergenze di guerra ed in prova di speciale omaggio verso il nuovo Governo, cede al Cav. Gaetano Rizziello, per il Campo di concentramento ebraico, la sede estiva del Seminario vescovile di Grosseto.”
Sappiamo quanto la guerra non avesse niente a che vedere con la persecuzione degli ebrei, così come è da sottolineare che la Chiesa di Roma non ha mai riconosciuto ufficialmente la Repubblica Sociale Italiana, il “nuovo Governo” cui il Vescovo si riferisce, e poiché l’Ordine di Polizia n. 5, che sanciva l’immediata detenzione in campi di concentramento di tutti gli ebrei presenti sul territorio nazionale, è datato 1° dicembre 1943, non sfugge lo zelo del Capo della Provincia che addirittura lo anticipa, di fatto realizzando un’iniziativa personale per la quale infatti viene redarguito dallo stesso Ministero. Ma ciò che più di ogni altra cosa rende il campo di concentramento di Roccatederighi unico in tutta l’Europa occidentale, è proprio il fatto di essere installato in un possedimento della Chiesa e non perché requisito, come dichiarerà il Vescovo a guerra finita, quando il 19 settembre 1944 richiederà al Ministero dell’Interno di Roma il pagamento dei ratei di affitto non riscossi… quando ormai non si poteva più ignorare l’orrenda fine cui erano state condannate molte famiglie cha da lì erano state trasferite a Fossoli e poi deportate ad Auschwitz.
Nel campo, già perfettamente funzionante dal 28 novembre, la vigilanza interna era affidata ad agenti di Pubblica Sicurezza, quella esterna a venti militi e a un ufficiale della 98^ Legione di Roccastrada, disposti lungo il filo spinato e armati di mitragliatrici e di bombe a mano; una vigilanza e un equipaggiamento spropositati considerate le dimensioni ridotte del campo.
Non esiste una lista completa degli internati, solo sporadiche note informative, ma si sa per certo che furono più di 80 fra uomini donne e bambini. Alcuni si presentarono spontaneamente al seguito delle famiglie più autorevoli di Pitigliano, dopo che queste li avevano convinti che nella “Villa del Vescovo” avrebbero trovato protezione.
Prima dell’emanazione delle Leggi Razziali, Pitigliano aveva ospitato una grande comunità ebraica; ancora oggi viene ricordata come “la piccola Gerusalemme”. Dal 1926 era passata sotto la giurisdizione di Livorno, ma fino al 1938 aveva mantenuto il proprio Rabbino, sostituito successivamente dall’Hazan, l’ufficiante. Qui ebrei e cristiani avevano convissuto pacificamente partecipando gli uni alle festività degli altri, ma le autorità locali applicarono in maniera estremamente rigorosa la persecuzione, confiscando beni e procedendo agli arresti in massa già dal 27 novembre 1943.
Fra coloro che si presentarono spontaneamente, una famiglia livornese: quella di Aldo Cava, che insieme alla moglie Elda Moscati e ai figlioletti Enzo e Franca, di sette e dodici anni, erano sfollati da Livorno poiché perseguitata da continui bombardamenti. Sono a Pitigliano già dal luglio precedente, ospiti del nonno materno e sotto sorveglianza.
Il 30 dicembre viene arrestata a Castell’Azzara un’altra famiglia livornese, anch’essa fuggita ai bombardamenti, sono Natale Finzi con la moglie Berta Della Riccia, la di lei sorella Luciana e il padre Erasmo. Natale ed Erasmo avevano trovato lavoro nella miniera di sale. Berta era incinta.
Insieme a loro vengono condotti al campo di Roccatederighi numerose altre famiglie arrestate su segnalazione di delatori, come quella della dodicenne ungherese Edith Singer, nascosta in un podere a Cinigiano e altre già sotto stretta sorveglianza come i Turteltaub, viennesi alloggiati ad Arcidosso dopo la chiusura delle “Case-famiglia” di Ferramonti di Tarsia. Ad Arcidosso tutti gli ebrei vennero radunati nella caserma dei carabinieri e poi trasferiti nei campi di concentramento. I coniugi Turteltaub avevano con sé due bambini: Hans di undici anni e Walter di otto.
Presto anche il Vescovo avrebbe raggiunto la sede estiva del seminario a Roccatederighi, dove aveva riservato un’ala per sé e per la sorella, quando i bombardamenti si fossero avvicinati alla città di Grosseto.
Presto, il 12 febbraio 1944, le famiglie che avevano convinto gli altri a presentarsi spontaneamente, saranno “liberate temporaneamente dalla detenzione”, in realtà per non tornarvi mai più.
Questa decisione fu presa su sollecitazione della stessa federazione fascista con sede a Pitigliano, in quanto i capi-famiglia provvedevano al trasporto di generi alimentari soprattutto di sale, attività ritenuta preziosa in un momento in cui gli autotrasportatori si rifiutavano di fare viaggi per il pericolo delle incursioni aeree. Erano le famiglie di Tranquillo e Adelmo Servi, ma non furono gli unici grossetani ad essere assolti dall’internamento.
Da subito la condizione nel campo delle persone del luogo si presentò diversa rispetto a quella degli altri internati; essi potevano addirittura recarsi al sottostante paese di Sassofortino, accompagnati dai militi, per fare la spesa (il seminario si trova sulla cima di un’altura parallela a quella dove è ubicato il borgo di Roccatederighi e si affaccia sul piccolo paese di Sassofortino). Agli stranieri e agli altri italiani invece non era assolutamente concesso di uscire e i loro pasti erano costituiti da quanto i militi acquistavano con le tessere annonarie che avevano sequestrato loro.
Fa riflettere l’intervista rilasciata nel 2001 da Cesare Nunes, anch’egli grossetano liberato, il quale parla di un tranquillo scorrere dei giorni nel campo scosso solo da alcuni eventi, così come stupisce il titolo stesso dell’articolo: “L’antisemitismo all’italiana”, a ribadire, ancora oggi, l’antistorico stereotipo “italiani brava gente”.
Tutti i grossetani vennero liberati, per lo più per addotti motivi di salute e quando per caso, proprio nel 2001, venne alla luce molto faticosamente l’esistenza del campo di concentramento, ovviamente gli unici testimoni furono proprio loro. Dei grossetani era rimasto nel campo fino all’ultimo giorno solo l’Hazan Azeglio Servi con la moglie e il figlio più piccolo Mario. Gli altri figli più grandi non si erano mai presentati preferendo la fuga.
Quali furono gli eventi che scossero quel “tranquillo scorrere dei giorni”? C’è da sperare la nascita, il 19 febbraio 1944, della piccola Gigliola, figlia di Berta e di Natale, internata già nel grembo di sua madre. Sicuramente lo fu il primo trasferimento a Fossoli di Carpi il 18 aprile 1944 di 21 fra gli internati, tanti quante erano le sedute del pullman dei servizi pubblici che li trasportò. Qualche interrogativo sorge sul fatto che il contratto di affitto del seminario sia stato registrato e quindi ufficializzato a tutti gli effetti solo quattro giorni prima, quando era già stata richiesta la lista degli stranieri da deportare. Ad essere deportati furono dodici stranieri e nove italiani: i Cava, i Finzi Della Riccia e Regina Ascarelli, una bambina di tre anni citata da tutti i testimoni ma di cui non si trova traccia negli archivi ufficiali. Ne parla Eugenia Servi, liberata con la famiglia il 12 febbraio, nel suo diario depositato presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Santo Stefano in provincia di Arezzo; ne parla lo stesso Cesare Nunes nelle interviste rilasciate, ove, tra l’altro, dovette ammettere che la lista dei trasferiti fu composta ad arte, proprio per proteggere i grossetani.
… Il 16 maggio vennero tutti caricati sul convoglio numero 10 diretto al campo di sterminio di Auschwitz, dove arrivarono il 23. La fine atroce di Berta e della sua bambina di soli tre mesi è raccontata nel suo diario da Frida Misul, livornese arrestata su denuncia della propria maestra di musica; anche la giovane Frida era sul convoglio numero 10.
Nessuno dei 21 deportati provenienti dal campo di Roccatederighi è sopravvissuto.
Il 7 giugno venne organizzato un secondo trasferimento a Fossoli e questa volta partirono anche Hans, Walter, Edith e le loro famiglie, in tutto 25 persone, come annota sul suo libro di preghiere lo stesso Azeglio Servi. Appunti scarni ma che costituiscono l’unica testimonianza diretta dal campo. Di loro sopravvivrà solo Ernst Steiner, arrestato ad Arcidosso insieme ai Turteltaub.
Di Edith si perderanno le tracce a Verona; negli archivi ufficiali risulta “deceduta in data e luogo ignoti”.
Azeglio Servi annota quindi che il 9 giugno il vescovo convinse il maresciallo Rizziello a lasciare liberi gli ultimi rimasti e che i militi si dettero alla fuga vestiti di abiti borghesi. Appare più convincente la versione fornita da Cesare Nunes, il quale racconta che il campo fu assalito dai partigiani del luogo capeggiati da quattro ufficiali dei servizi segreti di De Gaulle, che erano stati per un periodo internati nel campo ed erano riusciti a fuggire. In effetti un documento, datato 27 marzo 1944, elenca i nomi di sette uomini francesi provenienti da Roma ed internati a Roccatederighi. Ma ciò che fa ritenere più probabile questa versione è soprattutto la presenza nel piccolo parco del seminario, proprio dove correva il filo spinato di cui ancora se ne possono vedere i resti, di una lapide intitolata a Fidelfo Falchi, giovane milite ucciso lì in uno scontro a fuoco proprio il 9 giugno 1944.
Finita la guerra, tutto è stato dimenticato per anni. Il Capo della Provincia Alceo Ercolani venne processato ma esclusivamente per aver ordinato l’atroce eccidio di venti studenti davanti alle loro case di modo che le madri potessero vedere. Il Maresciallo Rizziello venne condannato ad una pena estremamente blanda e il Vescovo Paolo Galeazzi fu addirittura ricordato come “il vescovo degli ebrei” e il suo nome proposto dai grossetani fra i Giusti di Gerusalemme, cosa mai realizzata.
Il seminario negli anni più recenti è stato adibito a casa-vacanze per i ragazzi delle parrocchie vicine, successivamente utilizzato per feste e divertimenti, finché è stato abbandonato a se stesso. La sua storia, decisamente imbarazzante per molti e per questo tenuta volutamente nascosta, è venuta alla luce in modo casuale ed ha suscitato forti polemiche nelle alte sfere del clero grossetano, ma grazie agli sforzi di storici locali, nel 2008 la Chiesa ha acconsentito a porvi una lapide in memoria. Furono anche iniziati lavori di restauro per realizzarvi un centro di accoglienza per malati di Alzheimer, ma presto sono stati abbandonati.
La storia del campo di Roccatederighi, a mio parere, sconcerta. Riassume in sé tutti quegli elementi che mai vorremmo fossero esistiti ed esistessero: la banalità del male, l’indifferenza, la negazione.
Adesso il luogo è completamente abbandonato; all’interno sono ammassate le reti dei letti, il confessionale, pentole, vecchi armadi, una coppa del torneo preti-politi, licenze per la vendita di alcolici… guardandosi intorno la noncuranza annienta. Non solo la sua storia è intrisa di dolore e di disumanità, ma la mancata memoria che vi si aggiunge, il disinteresse, la mancanza di rispetto che vi si respira disorienta e indigna.
Nel campo di concentramento di Roccatederighi, nella sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, nessuno ha teso una mano a Edith Singer, a Franca ed Enzo Cava, ad Hans e Walter Turteltaub, a Regina Ascarelli, alla neonata Gigliola Finzi. Piccoli figli il cui ricordo fugace non può tacitare le coscienze. Ciò che è stato e la loro memoria deve sopravvivere per tutti i figli del mondo.
Sappiamo quanto la guerra non avesse niente a che vedere con la persecuzione degli ebrei, così come è da sottolineare che la Chiesa di Roma non ha mai riconosciuto ufficialmente la Repubblica Sociale Italiana, il “nuovo Governo” cui il Vescovo si riferisce, e poiché l’Ordine di Polizia n. 5, che sanciva l’immediata detenzione in campi di concentramento di tutti gli ebrei presenti sul territorio nazionale, è datato 1° dicembre 1943, non sfugge lo zelo del Capo della Provincia che addirittura lo anticipa, di fatto realizzando un’iniziativa personale per la quale infatti viene redarguito dallo stesso Ministero. Ma ciò che più di ogni altra cosa rende il campo di concentramento di Roccatederighi unico in tutta l’Europa occidentale, è proprio il fatto di essere installato in un possedimento della Chiesa e non perché requisito, come dichiarerà il Vescovo a guerra finita, quando il 19 settembre 1944 richiederà al Ministero dell’Interno di Roma il pagamento dei ratei di affitto non riscossi… quando ormai non si poteva più ignorare l’orrenda fine cui erano state condannate molte famiglie cha da lì erano state trasferite a Fossoli e poi deportate ad Auschwitz.
Nel campo, già perfettamente funzionante dal 28 novembre, la vigilanza interna era affidata ad agenti di Pubblica Sicurezza, quella esterna a venti militi e a un ufficiale della 98^ Legione di Roccastrada, disposti lungo il filo spinato e armati di mitragliatrici e di bombe a mano; una vigilanza e un equipaggiamento spropositati considerate le dimensioni ridotte del campo.
Non esiste una lista completa degli internati, solo sporadiche note informative, ma si sa per certo che furono più di 80 fra uomini donne e bambini. Alcuni si presentarono spontaneamente al seguito delle famiglie più autorevoli di Pitigliano, dopo che queste li avevano convinti che nella “Villa del Vescovo” avrebbero trovato protezione.
Prima dell’emanazione delle Leggi Razziali, Pitigliano aveva ospitato una grande comunità ebraica; ancora oggi viene ricordata come “la piccola Gerusalemme”. Dal 1926 era passata sotto la giurisdizione di Livorno, ma fino al 1938 aveva mantenuto il proprio Rabbino, sostituito successivamente dall’Hazan, l’ufficiante. Qui ebrei e cristiani avevano convissuto pacificamente partecipando gli uni alle festività degli altri, ma le autorità locali applicarono in maniera estremamente rigorosa la persecuzione, confiscando beni e procedendo agli arresti in massa già dal 27 novembre 1943.
Fra coloro che si presentarono spontaneamente, una famiglia livornese: quella di Aldo Cava, che insieme alla moglie Elda Moscati e ai figlioletti Enzo e Franca, di sette e dodici anni, erano sfollati da Livorno poiché perseguitata da continui bombardamenti. Sono a Pitigliano già dal luglio precedente, ospiti del nonno materno e sotto sorveglianza.
Il 30 dicembre viene arrestata a Castell’Azzara un’altra famiglia livornese, anch’essa fuggita ai bombardamenti, sono Natale Finzi con la moglie Berta Della Riccia, la di lei sorella Luciana e il padre Erasmo. Natale ed Erasmo avevano trovato lavoro nella miniera di sale. Berta era incinta.
Insieme a loro vengono condotti al campo di Roccatederighi numerose altre famiglie arrestate su segnalazione di delatori, come quella della dodicenne ungherese Edith Singer, nascosta in un podere a Cinigiano e altre già sotto stretta sorveglianza come i Turteltaub, viennesi alloggiati ad Arcidosso dopo la chiusura delle “Case-famiglia” di Ferramonti di Tarsia. Ad Arcidosso tutti gli ebrei vennero radunati nella caserma dei carabinieri e poi trasferiti nei campi di concentramento. I coniugi Turteltaub avevano con sé due bambini: Hans di undici anni e Walter di otto.
Presto anche il Vescovo avrebbe raggiunto la sede estiva del seminario a Roccatederighi, dove aveva riservato un’ala per sé e per la sorella, quando i bombardamenti si fossero avvicinati alla città di Grosseto.
Presto, il 12 febbraio 1944, le famiglie che avevano convinto gli altri a presentarsi spontaneamente, saranno “liberate temporaneamente dalla detenzione”, in realtà per non tornarvi mai più.
Questa decisione fu presa su sollecitazione della stessa federazione fascista con sede a Pitigliano, in quanto i capi-famiglia provvedevano al trasporto di generi alimentari soprattutto di sale, attività ritenuta preziosa in un momento in cui gli autotrasportatori si rifiutavano di fare viaggi per il pericolo delle incursioni aeree. Erano le famiglie di Tranquillo e Adelmo Servi, ma non furono gli unici grossetani ad essere assolti dall’internamento.
Da subito la condizione nel campo delle persone del luogo si presentò diversa rispetto a quella degli altri internati; essi potevano addirittura recarsi al sottostante paese di Sassofortino, accompagnati dai militi, per fare la spesa (il seminario si trova sulla cima di un’altura parallela a quella dove è ubicato il borgo di Roccatederighi e si affaccia sul piccolo paese di Sassofortino). Agli stranieri e agli altri italiani invece non era assolutamente concesso di uscire e i loro pasti erano costituiti da quanto i militi acquistavano con le tessere annonarie che avevano sequestrato loro.
Fa riflettere l’intervista rilasciata nel 2001 da Cesare Nunes, anch’egli grossetano liberato, il quale parla di un tranquillo scorrere dei giorni nel campo scosso solo da alcuni eventi, così come stupisce il titolo stesso dell’articolo: “L’antisemitismo all’italiana”, a ribadire, ancora oggi, l’antistorico stereotipo “italiani brava gente”.
Tutti i grossetani vennero liberati, per lo più per addotti motivi di salute e quando per caso, proprio nel 2001, venne alla luce molto faticosamente l’esistenza del campo di concentramento, ovviamente gli unici testimoni furono proprio loro. Dei grossetani era rimasto nel campo fino all’ultimo giorno solo l’Hazan Azeglio Servi con la moglie e il figlio più piccolo Mario. Gli altri figli più grandi non si erano mai presentati preferendo la fuga.
Quali furono gli eventi che scossero quel “tranquillo scorrere dei giorni”? C’è da sperare la nascita, il 19 febbraio 1944, della piccola Gigliola, figlia di Berta e di Natale, internata già nel grembo di sua madre. Sicuramente lo fu il primo trasferimento a Fossoli di Carpi il 18 aprile 1944 di 21 fra gli internati, tanti quante erano le sedute del pullman dei servizi pubblici che li trasportò. Qualche interrogativo sorge sul fatto che il contratto di affitto del seminario sia stato registrato e quindi ufficializzato a tutti gli effetti solo quattro giorni prima, quando era già stata richiesta la lista degli stranieri da deportare. Ad essere deportati furono dodici stranieri e nove italiani: i Cava, i Finzi Della Riccia e Regina Ascarelli, una bambina di tre anni citata da tutti i testimoni ma di cui non si trova traccia negli archivi ufficiali. Ne parla Eugenia Servi, liberata con la famiglia il 12 febbraio, nel suo diario depositato presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Santo Stefano in provincia di Arezzo; ne parla lo stesso Cesare Nunes nelle interviste rilasciate, ove, tra l’altro, dovette ammettere che la lista dei trasferiti fu composta ad arte, proprio per proteggere i grossetani.
… Il 16 maggio vennero tutti caricati sul convoglio numero 10 diretto al campo di sterminio di Auschwitz, dove arrivarono il 23. La fine atroce di Berta e della sua bambina di soli tre mesi è raccontata nel suo diario da Frida Misul, livornese arrestata su denuncia della propria maestra di musica; anche la giovane Frida era sul convoglio numero 10.
Nessuno dei 21 deportati provenienti dal campo di Roccatederighi è sopravvissuto.
Il 7 giugno venne organizzato un secondo trasferimento a Fossoli e questa volta partirono anche Hans, Walter, Edith e le loro famiglie, in tutto 25 persone, come annota sul suo libro di preghiere lo stesso Azeglio Servi. Appunti scarni ma che costituiscono l’unica testimonianza diretta dal campo. Di loro sopravvivrà solo Ernst Steiner, arrestato ad Arcidosso insieme ai Turteltaub.
Di Edith si perderanno le tracce a Verona; negli archivi ufficiali risulta “deceduta in data e luogo ignoti”.
Azeglio Servi annota quindi che il 9 giugno il vescovo convinse il maresciallo Rizziello a lasciare liberi gli ultimi rimasti e che i militi si dettero alla fuga vestiti di abiti borghesi. Appare più convincente la versione fornita da Cesare Nunes, il quale racconta che il campo fu assalito dai partigiani del luogo capeggiati da quattro ufficiali dei servizi segreti di De Gaulle, che erano stati per un periodo internati nel campo ed erano riusciti a fuggire. In effetti un documento, datato 27 marzo 1944, elenca i nomi di sette uomini francesi provenienti da Roma ed internati a Roccatederighi. Ma ciò che fa ritenere più probabile questa versione è soprattutto la presenza nel piccolo parco del seminario, proprio dove correva il filo spinato di cui ancora se ne possono vedere i resti, di una lapide intitolata a Fidelfo Falchi, giovane milite ucciso lì in uno scontro a fuoco proprio il 9 giugno 1944.
Finita la guerra, tutto è stato dimenticato per anni. Il Capo della Provincia Alceo Ercolani venne processato ma esclusivamente per aver ordinato l’atroce eccidio di venti studenti davanti alle loro case di modo che le madri potessero vedere. Il Maresciallo Rizziello venne condannato ad una pena estremamente blanda e il Vescovo Paolo Galeazzi fu addirittura ricordato come “il vescovo degli ebrei” e il suo nome proposto dai grossetani fra i Giusti di Gerusalemme, cosa mai realizzata.
Il seminario negli anni più recenti è stato adibito a casa-vacanze per i ragazzi delle parrocchie vicine, successivamente utilizzato per feste e divertimenti, finché è stato abbandonato a se stesso. La sua storia, decisamente imbarazzante per molti e per questo tenuta volutamente nascosta, è venuta alla luce in modo casuale ed ha suscitato forti polemiche nelle alte sfere del clero grossetano, ma grazie agli sforzi di storici locali, nel 2008 la Chiesa ha acconsentito a porvi una lapide in memoria. Furono anche iniziati lavori di restauro per realizzarvi un centro di accoglienza per malati di Alzheimer, ma presto sono stati abbandonati.
La storia del campo di Roccatederighi, a mio parere, sconcerta. Riassume in sé tutti quegli elementi che mai vorremmo fossero esistiti ed esistessero: la banalità del male, l’indifferenza, la negazione.
Adesso il luogo è completamente abbandonato; all’interno sono ammassate le reti dei letti, il confessionale, pentole, vecchi armadi, una coppa del torneo preti-politi, licenze per la vendita di alcolici… guardandosi intorno la noncuranza annienta. Non solo la sua storia è intrisa di dolore e di disumanità, ma la mancata memoria che vi si aggiunge, il disinteresse, la mancanza di rispetto che vi si respira disorienta e indigna.
Nel campo di concentramento di Roccatederighi, nella sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, nessuno ha teso una mano a Edith Singer, a Franca ed Enzo Cava, ad Hans e Walter Turteltaub, a Regina Ascarelli, alla neonata Gigliola Finzi. Piccoli figli il cui ricordo fugace non può tacitare le coscienze. Ciò che è stato e la loro memoria deve sopravvivere per tutti i figli del mondo.
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Israel Meir Lau
(Uno dei più giovani sopravvissuti al campo di concentramento di Buchenwald, già Rabbino Capo d'Israele)
(Uno dei più giovani sopravvissuti al campo di concentramento di Buchenwald, già Rabbino Capo d'Israele)
DALLE CENERI ALLA STORIA - Riannodando con passo biblico il filo della memoria: il racconto dell'olocausto nei ricordi di un protagonista
Se avessero raccontato a Lulek, quando aveva otto anni, che un giorno si sarebbe seduto alla tavola della Regina d'Inghilterra, che avrebbe conversato con il Papa farcendo il discorso con parole in yiddish, che avrebbe ascoltato insieme al Cancelliere tedesco, proprio lui, “Credo con fede alla venuta del Messia” eseguita dai hassid di Gur, avrebbe stentato a crederlo. Ma forse no. Perché Lulek, il bambino più piccolo sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, era abituato ai miracoli, a una catena di miracoli: la madre che lo aveva spinto nelle braccia del fratello un attimo prima di essere deportata, quel fratello che gli avrebbe fatto da madre e anche da padre e a cui deve la sopravvivenza, di lager in lager, di treno in treno, guardando in faccia la morte. Suo fratello Naftali – Tulek – è sopravvissuto insieme a lui. Insieme hanno rispettato le volontà del padre, sono immigrati in Israele dove Lulek – Srulek – Israel ha raccolto il testimone di una millenaria dinastia di rabbini, diventando Rabbino Capo d'Israele. Il Rav Israel Meir Lau è stato insignito nel 2005 del Premio Israele. Nell'introduzione l'Autore scrive: “Il mio racconto nasce dai ricordi personali che ho dell'Olocausto, della mia fuga, delle torture inflitte al corpo e all'anima e di come sia cresciuto senza i genitori e una casa. Questo libro racconta anche i miei incontri con persone molto speciali, ebrei e non ebrei, che hanno contribuito al miracolo della salvezza di un intero popolo e mio personale, alla costruzione di una nazione sul suolo della nostra patria e alla transizione dalla Shoah alla rinascita.
Prego affinché nessun figlio al mondo debba mai più intraprendere il percorso tormentato dei miei compagni e mio per ritornare, come in Geremia [31: 16]: I tuoi figli torneranno nei loro confini”.
Il testo originale è stato scritto nell'anniversario dei 60 anni dalla liberazione dal campo di concentramento di Buchenwald. Nella prima parte Lulek, bambino, si abbandona ai ricordi; nella seconda parte è il Rav Israel Meir Lau a render conto al lettore di come quei ricordi abbiano segnato il suo cammino di rabbino e capo religioso.
Uno dei più giovani sopravvissuti di Buchenwald, Israel Meir Lau, aveva otto anni al momento della liberazione. Discendente di una ininterrotta e millenaria catena di rabbini, è stato rabbino capo askenazita d'Israele, uno dei più rispettati e carismatici leader della fede ebraica, stimato in tutto il mondo. “Dalle ceneri alla storia” è lo straziante, avvincente e miracoloso racconto autobiografico del Rav Lau.
Prego affinché nessun figlio al mondo debba mai più intraprendere il percorso tormentato dei miei compagni e mio per ritornare, come in Geremia [31: 16]: I tuoi figli torneranno nei loro confini”.
Il testo originale è stato scritto nell'anniversario dei 60 anni dalla liberazione dal campo di concentramento di Buchenwald. Nella prima parte Lulek, bambino, si abbandona ai ricordi; nella seconda parte è il Rav Israel Meir Lau a render conto al lettore di come quei ricordi abbiano segnato il suo cammino di rabbino e capo religioso.
Uno dei più giovani sopravvissuti di Buchenwald, Israel Meir Lau, aveva otto anni al momento della liberazione. Discendente di una ininterrotta e millenaria catena di rabbini, è stato rabbino capo askenazita d'Israele, uno dei più rispettati e carismatici leader della fede ebraica, stimato in tutto il mondo. “Dalle ceneri alla storia” è lo straziante, avvincente e miracoloso racconto autobiografico del Rav Lau.
NOTE:
“Questo è un libro sul giudaismo, la sua gloria e le sue avversità, raffiguranti un periodo che può essere giudicato come il più doloroso, amaro e buio negli annali del popolo ebraico. Rappresenta la personalità dello scrittore unitamente alle caratteristiche del suo popolo. È un libro nel quale ogni parola è incisa nel sangue.”
SHIMON PERES
“Lasciamo che sia il lettore a scoprire l'intensità di questo viaggio travolgente che descrive come si possa convivere con lo spettro della morte mentre altri ne gioiscono. Come ci si può aggrappare, anche nelle tenebre più profonde, alla luce della fede, come, soprattutto, si può costruire sulle ceneri. Come un piccolo bimbo di Piotrków scampato a Buchenwald sia riuscito a crescere e fiorire nello splendore del cielo azzurro dello stato ebraico.”
ELIE WIESEL
Nominato rabbino nel 1961, ISRAEL MEIR LAU ha svolto l'incarico di rabbino capo askenazita di Israele dal 1993 al 2003. Attualmente è capo rabbino di Tel Aviv e Presidente di Yad Vashem, organizzazione ufficiale d'Israele per la memoria delle vittime ebree dell'Olocausto. Nel 2005 gli è stato conferito il Premio Israele – la massima onorificenza del Paese – per i risultati conseguiti nell'intero arco della sua esistenza e per lo straordinario contributo alla società e allo Stato d'Israele. Nel 2011, la Francia gli ha conferito la Legione d'Onore in riconoscimento dei suoi sforzi per aver promosso il dialogo interreligioso.
SHIMON PERES è il Presidente dello Stato d'Israele dal 2007. Per due volte ha ricoperto la carica di Primo Ministro e una volta quella di Primo Ministro ad interim. Nella sua carriera politica, che dura da oltre 66 anni, è stato membro del governo per dodici legislature. Nel 1994 è stato insignito del Premio Nobel per la Pace. È autore di numerosi libri e di centinaia tra articoli e saggi.
ELIE WIESEL è nato in Romania, a quindici anni fu deportato ad Auschwitz. Dopo la guerra è diventato giornalista e scrittore a Parigi e da allora ha scritto più di cinquanta libri tra cui il più venduto: “La Notte.” Ha ricevuto numerose onorificenze tra cui la Medaglia Presidenziale della Libertà, la Legione d'Onore francese. Nel 1986 è stato insignito del Nobel per la Pace. Dal 1976 è professore all'Andrew W. Mellon in Humanities e docente di filosofia e religione presso l'Università di Boston.
SHIMON PERES
“Lasciamo che sia il lettore a scoprire l'intensità di questo viaggio travolgente che descrive come si possa convivere con lo spettro della morte mentre altri ne gioiscono. Come ci si può aggrappare, anche nelle tenebre più profonde, alla luce della fede, come, soprattutto, si può costruire sulle ceneri. Come un piccolo bimbo di Piotrków scampato a Buchenwald sia riuscito a crescere e fiorire nello splendore del cielo azzurro dello stato ebraico.”
ELIE WIESEL
Nominato rabbino nel 1961, ISRAEL MEIR LAU ha svolto l'incarico di rabbino capo askenazita di Israele dal 1993 al 2003. Attualmente è capo rabbino di Tel Aviv e Presidente di Yad Vashem, organizzazione ufficiale d'Israele per la memoria delle vittime ebree dell'Olocausto. Nel 2005 gli è stato conferito il Premio Israele – la massima onorificenza del Paese – per i risultati conseguiti nell'intero arco della sua esistenza e per lo straordinario contributo alla società e allo Stato d'Israele. Nel 2011, la Francia gli ha conferito la Legione d'Onore in riconoscimento dei suoi sforzi per aver promosso il dialogo interreligioso.
SHIMON PERES è il Presidente dello Stato d'Israele dal 2007. Per due volte ha ricoperto la carica di Primo Ministro e una volta quella di Primo Ministro ad interim. Nella sua carriera politica, che dura da oltre 66 anni, è stato membro del governo per dodici legislature. Nel 1994 è stato insignito del Premio Nobel per la Pace. È autore di numerosi libri e di centinaia tra articoli e saggi.
ELIE WIESEL è nato in Romania, a quindici anni fu deportato ad Auschwitz. Dopo la guerra è diventato giornalista e scrittore a Parigi e da allora ha scritto più di cinquanta libri tra cui il più venduto: “La Notte.” Ha ricevuto numerose onorificenze tra cui la Medaglia Presidenziale della Libertà, la Legione d'Onore francese. Nel 1986 è stato insignito del Nobel per la Pace. Dal 1976 è professore all'Andrew W. Mellon in Humanities e docente di filosofia e religione presso l'Università di Boston.
MAGGIORI INFORMAZIONI:
Autore: Israel Meir Lau
Prefazioni di: Riccardo Di Segni, Shimon Peres e Elie Wiesel Traduzione di: Valeria Habib Jorno Anno di edizione: 2014 Pagine: 432 Prezzo: 25 Euro Prezzo Ebook PDF: 20 Euro Prezzo Ebook EPUB: 19.99 Euro Contenuto: Traduzione integrale in lingua italiana del best seller tradotto in tutto il mondo. |
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Silvia Trovato
DALLA CASA NEL BOSCO AL GRANDE MONDO
Questo libro è un'indagine storica e un'inchiesta giornalistica sopra uno dei fatti che riguarda il nostro territorio unendo il passato, con il presente e il futuro. Le storie che troverete in questo libro sono quelle dei bambini ebrei dell'ex orfanotrofio israelitico di Livorno che nel 1944 sopravvissero ai bombardamenti della stazione di Vada, dove furono soccorsi dalle famiglie del paese. A partire dalla ricostruzione di questo evento molto conosciuto grazie alla prova di solidarietà mostrata dagli abitanti di Vada e dal prete partigiano Don Vellutini, gli autori Tiziano Arrigoni e Silvia Trovato, si sono chiesti cosa fosse successo a questi bambini in più di settant'anni. Cosa successe nelle loro vite? Dove andarono? Che ricordi avranno mantenuto di quella storia, degli abitanti di Vada? Come avranno vissuto il dopoguerra? È così che Tiziano Arrigoni, docente di storia, Silvia Trovato, giornalista, hanno iniziato un viaggio straordinario che li ha portati da Vada a Israele, da Livorno a Smirne, da Sassetta a Trieste. Un paziente lavoro di ricerca, segnalazioni e improvvise intuizioni ha condotto gli autori all'incontro con “i bambini di Vada” ancora vivi o con i loro figli e nipoti, cominciando un viaggio nel tempo in cui la storia personale si unisce a quella collettiva. Ugo e Luciana Bassano, Sigfrido Libson, Beniamino Gabbai, Laura Gerstenfeld sono i bambini ebrei di cui leggeremo la storia, scoprendo la loro vita prima e dopo l'orfanotrofio, scoprendo cosa ha significato per loro essere italiani di religione ebraica oppure lasciare l'Italia e andare in Israele a creare una nuova vita. È un libro in cui troverete un negozio di un cappellaio un tempo molto famoso a Livorno, come la storia dei Kibbutz comunitari; leggerete di soldati Hawaiani a Sassetta e dei ricordi del “cuscussù” nei giorni di festa. I testimoni rintracciati dagli autori ramificano le loro storie dal nostro territorio al resto del mondo, ed è questo che rende l'intreccio storico e narrativo molto intenso; il libro ricostruisce storicamente e nei dettagli gli eventi, utilizzando anche la narrazione, grazie a tutto il materiale raccolto direttamente attraverso le interviste. È un libro che parla “bagitto”, antico linguaggio utilizzato dalla comunità ebraica di Livorno, presente ancora oggi in parole gergali di uso quotidiano, come ad esempio “sciagattare”. Dentro il bagitto ci sono tutte le lingue che si parlavano a Livorno unendo portoghese, spagnolo, italiano, yiddish; proprio per questo senso del viaggio, dell'intreccio delle storie, delle lingue e dei ricordi, questo libro ha anima “bàgita”.
NOTE BIOGRAFICHE
Tiziano Arrigoni: Massetano - follonichese - piombinese - solvayno, insomma della Toscana costiera, con qualche incursione fiorentina e comasca, Tiziano Arrigoni è un personaggio dalle varie attività: scrittore di storia e di storie, pendolare di Trenitalia, ideatore di musei, uomo di montagna sudtirolese ed esperto di Corsica, amante di politica - politica e non dei surrogati, maremmano d'origine e solvayno d'adozione... ma soprattutto uno che, come dice lui, fa uno dei mestieri più belli del mondo, l'insegnante (al Liceo Scientifico "E.Mattei" di Solvay) e, parlando e insegnando cose nuove, trova ispirazione (talvolta anche "incazzature") dai suoi ragazzi di ieri e di oggi.
Silvia Trovato: Redattrice della web radio comunitaria Radio Cage, collaboratrice del Tirreno e giornalista freelance, appassionata del mondo e delle storie. Si occupa di arte e cultura, politica e attualità, ambiente e sostenibilità. Ama leggere saggi, romanzi, poesie e biografie piene di lettere e carteggi.
Dalla casa nel bosco al grande mondo è inoltre acquistabile anche su:
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Cesare Israel Moscati
I FIGLI DELLA SHOAH - Breve introduzione
Cercare risposte che non si possono avere per anni…Spiegare il dolore infinito della SHOA attraverso analisi personali, confronti con altre persone, scavare fino in fondo, giungendo nell’inconscio tormentoso, prendendo atto che si è figli della colpa.
”Tu sei nato perché IO sono sopravvissuta, ma tu sei il frutto della colpa. In pratica, non saresti dovuto nascere”. E allora devi partire per un viaggio attraverso l’animo dei figli della SHOA, figli come te di un misfatto che vi porterete dentro per generazioni. Il confronto con la pena altrui non lenirà la tua pena, ma potrà aiutarti a capire che le molteplici anime dei figli dei sopravvissuti sono simili alla tua. La mia anima pulsa sempre sullo stesso battito. Devi partire.
Tua madre.
”Tu sei nato perché IO sono sopravvissuta, ma tu sei il frutto della colpa. In pratica, non saresti dovuto nascere”. E allora devi partire per un viaggio attraverso l’animo dei figli della SHOA, figli come te di un misfatto che vi porterete dentro per generazioni. Il confronto con la pena altrui non lenirà la tua pena, ma potrà aiutarti a capire che le molteplici anime dei figli dei sopravvissuti sono simili alla tua. La mia anima pulsa sempre sullo stesso battito. Devi partire.
Tua madre.
TESTIMONIANZA
Sono rientrato dal primo viaggio in Israele e ho sentito il desiderio di parlarne in modo approfondito ed esplicito con mia nipote Shana, che frequenta la quinta elementare nella scuola Vittorio Polacco a Roma, la stessa scuola da cui, nel 1943, sono stati deportati 114 alunni e nessuno di loro ha più fatto ritorno. Mia nipote stessa ha richiesto alla sua insegnante di potermi invitare in classe, affinché raccontassi le storie del mio primo viaggio in Israele ed in Francia, e, sapendo che sarei dovuto tornarvi, si è prodigata per organizzare una serie di sorprese da portare ai miei compagni di viaggio.
Sono stato quindi invitato a parlare nella classe di Shana. Tutta la scolaresca era attenta e molto impressionata nell’ascoltare le storie raccolte dai figli dei sopravvissuti alla SHOA, residenti in Israele e in Francia. I bambini sanno donarci, col loro animo candido e ingenuo, le parole più profonde e semplici, poiché possiedono la chiave d’accesso per entrare nel nostro animo. La loro spontaneità mi ha spinto a raccontare in modo esplicito l’esperienza degli incontri, cercando di usare parole che normalmente si rivolgono agli adulti, per esprimere le sensazioni scaturite dalla conoscenza di uomini e donne con una sofferenza simile alla mia.
Al termine della conversazione in classe, i bambini si sono messi a cantare in coro e mia nipote Shana si è fatta orgogliosamente portavoce del desiderio collettivo: “Nonno, tutti noi vogliamo essere d’aiuto a te e a tutte le persone che hai incontrato in Israele! Questo è il nostro progetto: ognuno di noi preparerà un disegno e faremo un disco con le canzoni che abbiamo cantato adesso. Tu porterai tutto alle persone che hai promesso di incontrare di nuovo in Israele e saremo felici di cantare in coro per loro! Poi tu tornerai qui da noi e ci racconterai altre storie!”.
Commosso, ho promesso loro di ritornare prima della partenza per rincontrare i miei compagni di viaggio e prendere i “regali” per loro.
Nella comunità ebraica romana non vi è famiglia che non sia stata toccata direttamente dalla SHOA.
Io, testardamente e caparbiamente continuo a chiedermi PERCHE’ ed è la stesa domanda rivoltami dai bambini della scuola ed è la stessa domanda che reciprocamente ci siamo posti con le persone incontrate nel mio primo viaggio.
Ho scoperto che l’unico modo era quello di confrontarmi con le persone che appartengono alla generazione dei figli e dei nipoti della SHOA. Ho vagato per anni in cerca di risposte da parte delle persone a me più vicine, ma il loro dolore per la colpa di essere sopravvissuti si era tramutato in una silenziosa assuefazione al divenire della vita, per dura che fosse…
Sono partito per un viaggio alla ricerca dell’animo dei figli della SHOA….In Israele e in Francia. Questo viaggio è un incontro dolente nel loro animo.
Viaggiare nel loro animo è come toccare la devastazione del disegno nazista, lo stesso disegno che ha modificato il mio essere, prima ancora di nascere.
Parto per Israele e incontro personalmente i miei compagni di viaggio.
Sono stato quindi invitato a parlare nella classe di Shana. Tutta la scolaresca era attenta e molto impressionata nell’ascoltare le storie raccolte dai figli dei sopravvissuti alla SHOA, residenti in Israele e in Francia. I bambini sanno donarci, col loro animo candido e ingenuo, le parole più profonde e semplici, poiché possiedono la chiave d’accesso per entrare nel nostro animo. La loro spontaneità mi ha spinto a raccontare in modo esplicito l’esperienza degli incontri, cercando di usare parole che normalmente si rivolgono agli adulti, per esprimere le sensazioni scaturite dalla conoscenza di uomini e donne con una sofferenza simile alla mia.
Al termine della conversazione in classe, i bambini si sono messi a cantare in coro e mia nipote Shana si è fatta orgogliosamente portavoce del desiderio collettivo: “Nonno, tutti noi vogliamo essere d’aiuto a te e a tutte le persone che hai incontrato in Israele! Questo è il nostro progetto: ognuno di noi preparerà un disegno e faremo un disco con le canzoni che abbiamo cantato adesso. Tu porterai tutto alle persone che hai promesso di incontrare di nuovo in Israele e saremo felici di cantare in coro per loro! Poi tu tornerai qui da noi e ci racconterai altre storie!”.
Commosso, ho promesso loro di ritornare prima della partenza per rincontrare i miei compagni di viaggio e prendere i “regali” per loro.
Nella comunità ebraica romana non vi è famiglia che non sia stata toccata direttamente dalla SHOA.
Io, testardamente e caparbiamente continuo a chiedermi PERCHE’ ed è la stesa domanda rivoltami dai bambini della scuola ed è la stessa domanda che reciprocamente ci siamo posti con le persone incontrate nel mio primo viaggio.
Ho scoperto che l’unico modo era quello di confrontarmi con le persone che appartengono alla generazione dei figli e dei nipoti della SHOA. Ho vagato per anni in cerca di risposte da parte delle persone a me più vicine, ma il loro dolore per la colpa di essere sopravvissuti si era tramutato in una silenziosa assuefazione al divenire della vita, per dura che fosse…
Sono partito per un viaggio alla ricerca dell’animo dei figli della SHOA….In Israele e in Francia. Questo viaggio è un incontro dolente nel loro animo.
Viaggiare nel loro animo è come toccare la devastazione del disegno nazista, lo stesso disegno che ha modificato il mio essere, prima ancora di nascere.
Parto per Israele e incontro personalmente i miei compagni di viaggio.
MAGGIORI INFORMAZIONI
Regia BEPPE TUFARULO
Soggetto ISRAEL CESARE MOSCATI, GIACOMO FAENZA Scritto da ISRAEL CESARE MOSCATI Fotografia FRANCESCO DI PIERRO Musiche MICHELE AMADORI Montaggio ALESSANDRO AMORI Fonico di presa diretta VINCENZO URSELLIproduttore esecutivo ENRICO VENTRICEdirettore di produzione DOMENICO BRUNOprodotto da IPPOLITO LEOTTA Una produzione GLOBAL VISION GROUP con RAI CINEMA Anno di produzione 2014 Formato HD Durata film 57’ Lingua italiano, inglese, francese (con oversound in italiano) |
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Graziella Di Gasparro, Italia
BREVE INTRODUZIONE
Graziella Di Gasparro è
una preziosa testimone di uno dei momenti più bui della nostra Storia. Da anni
cerca giustizia e s’impegna a raccontare la sua storia, la storia della sua
famiglia, rendendo partecipi anche le nuove generazioni.
Questa è la storia di una giovanissima Graziella, di una bambina che è cresciuta con lo spettro del fascismo che aleggiava intorno a lei, di una bambina che a soli 10 anni ha assistito, inerme, al supplizio e poi all’uccisione di suo padre, insieme ad altri uomini, per rappresaglia.
“La nostra casa era stata occupata da un comando nazista, che razziò tutto ciò che trovò obbligandoci ad andare via. Con l'avanzata degli americani verso il fronte di Cassino, anche il comando nazista fu costretto a lasciare le nostre case, non senza averle prima minate e ridotte ad un cumulo di macerie. Tutto in quello stesso giorno, il 1 Novembre 1943, il giorno in cui assassinarono il mio papà.”
Quando noi dell’associazione UN PONTE per ANNE FRANK abbiamo chiesto a Graziella se fosse possibile condividere le sue parole, lei ha immediatamente accettato, perché vuole continuare a raccontare la sua storia.
E noi crediamo che la sua storia, così come ogni testimonianza, vada raccontata. Ascoltata. Ricordata.
Questa è la storia di una giovanissima Graziella, di una bambina che è cresciuta con lo spettro del fascismo che aleggiava intorno a lei, di una bambina che a soli 10 anni ha assistito, inerme, al supplizio e poi all’uccisione di suo padre, insieme ad altri uomini, per rappresaglia.
“La nostra casa era stata occupata da un comando nazista, che razziò tutto ciò che trovò obbligandoci ad andare via. Con l'avanzata degli americani verso il fronte di Cassino, anche il comando nazista fu costretto a lasciare le nostre case, non senza averle prima minate e ridotte ad un cumulo di macerie. Tutto in quello stesso giorno, il 1 Novembre 1943, il giorno in cui assassinarono il mio papà.”
Quando noi dell’associazione UN PONTE per ANNE FRANK abbiamo chiesto a Graziella se fosse possibile condividere le sue parole, lei ha immediatamente accettato, perché vuole continuare a raccontare la sua storia.
E noi crediamo che la sua storia, così come ogni testimonianza, vada raccontata. Ascoltata. Ricordata.
TESTIMONIANZA
Mi chiamo Anna Maria Grazia Di Gasparro e sono nata il
primo Luglio 1933 a Conca della Campania dove risiedo ancora. Già dal primo
giorno sono stata chiamata Graziella
e così mi chiamava il mio papà.
Ho trascorso i miei primi 10 anni fra medici e ospedalizzazioni, tutto molto attutito dal grande amore del mio papà e della mia mamma, che mi sorreggevano quasi a diminuire le grandi sofferenze che tuttavia pativo.
La guerra in corso stravolse la mia famiglia ed io venni privata di un padre tenero, affettuoso, indispensabile, prelevato e invitato a seguire un manipolo di nazisti. A mia madre dissero che sarebbero tornati presto.
La sua presenza sarebbe servita solo per rimuovere delle macerie. E intanto rastrellarono altri uomini e purtroppo nessuno di loro tornò più.
Ho trascorso i miei primi 10 anni fra medici e ospedalizzazioni, tutto molto attutito dal grande amore del mio papà e della mia mamma, che mi sorreggevano quasi a diminuire le grandi sofferenze che tuttavia pativo.
La guerra in corso stravolse la mia famiglia ed io venni privata di un padre tenero, affettuoso, indispensabile, prelevato e invitato a seguire un manipolo di nazisti. A mia madre dissero che sarebbero tornati presto.
La sua presenza sarebbe servita solo per rimuovere delle macerie. E intanto rastrellarono altri uomini e purtroppo nessuno di loro tornò più.
La nostra casa era stata occupata da un comando nazista, che razziò tutto ciò che trovò
obbligandoci ad andare via. Con l'avanzata degli americani verso il fronte di
Cassino, anche il comando nazista fu costretto a lasciare le nostre case, non senza
averle prima minate e ridotte ad un cumulo di macerie. Tutto in quello stesso
giorno, il 1 Novembre 1943, il
giorno in cui assassinarono il mio papà.
I giorni che seguirono questa tragedia sono inenarrabili. Intorno si respirava solo morte, distruzione ed orrore. Eravamo tra due fuochi: quello nazista arroccato a Montecassino e quello americano, pronto a scacciare i tedeschi per poi avanzare verso Nord e liberare l'Italia da quell'oppressione barbara e crudele che aveva oltrepassato ogni limite umano e civile.
Sono sopravvissuta al primo bombardamento da parte degli americani a Roma il 19 luglio 1943. Ricordo ancora quella fuga quando scendendo una rampa di scale, notai di fianco un uomo che, privo di gambe, faceva leva sulle braccia, per cercare di salvare quello che gli era rimasto del suo corpo mutilato. Era un marinaio ferito, vittima anche lui di una guerra atroce. Fortunatamente qualche giorno dopo arrivò mio padre a prendermi. Riuscì a trovarmi all'isoletta Tiberina dopo aver girato una lunga serie di rifugi, ospedali e persino obitori.
La mia vita è continuata fra non poche difficoltà sia quotidiane che sociali. Mi mancava anche il necessario.
Dopo la morte di mio padre entrai, come orfana di guerra, in collegio. Definire lager quel luogo è sicuramente appropriato vista la carenza di igiene, cibo, affetto e libertà. Nonostante tutto è prevalso in me lo spirito e lo stimolo a migliorarmi, oltre alla voglia di capire e di sapere.
Cose che fin da bambina mi hanno sempre contraddistinto e che mi hanno fortificato verso altre dure prove riservatemi dalla vita: vari e dolorosissimi interventi chirurgici di cui ancora porto le ferite nel corpo.
I giorni che seguirono questa tragedia sono inenarrabili. Intorno si respirava solo morte, distruzione ed orrore. Eravamo tra due fuochi: quello nazista arroccato a Montecassino e quello americano, pronto a scacciare i tedeschi per poi avanzare verso Nord e liberare l'Italia da quell'oppressione barbara e crudele che aveva oltrepassato ogni limite umano e civile.
Sono sopravvissuta al primo bombardamento da parte degli americani a Roma il 19 luglio 1943. Ricordo ancora quella fuga quando scendendo una rampa di scale, notai di fianco un uomo che, privo di gambe, faceva leva sulle braccia, per cercare di salvare quello che gli era rimasto del suo corpo mutilato. Era un marinaio ferito, vittima anche lui di una guerra atroce. Fortunatamente qualche giorno dopo arrivò mio padre a prendermi. Riuscì a trovarmi all'isoletta Tiberina dopo aver girato una lunga serie di rifugi, ospedali e persino obitori.
La mia vita è continuata fra non poche difficoltà sia quotidiane che sociali. Mi mancava anche il necessario.
Dopo la morte di mio padre entrai, come orfana di guerra, in collegio. Definire lager quel luogo è sicuramente appropriato vista la carenza di igiene, cibo, affetto e libertà. Nonostante tutto è prevalso in me lo spirito e lo stimolo a migliorarmi, oltre alla voglia di capire e di sapere.
Cose che fin da bambina mi hanno sempre contraddistinto e che mi hanno fortificato verso altre dure prove riservatemi dalla vita: vari e dolorosissimi interventi chirurgici di cui ancora porto le ferite nel corpo.
Mi è
rimasta però una grossa spina nel cuore:
rendere giustizia alla memoria di mio padre. Credo di esserci riuscita con
grande soddisfazione e successo attraverso mostre, convegni, libri e -in
ultimo- questo sito Internet.
Questo impegno doloroso, ma molto importante della mia vita è emerso per una serie di circostanze dovute unicamente alla mia volontà di voler scrivere una pagina di storia sconosciuta e impunita, che si è consumata nel nostro Paese tra la voglia di cancellarla e l'indifferenza più totale da parte delle Istituzioni e della popolazione poco propensa a ricordare, carenti di memoria storica. Una indifferenza sorda persino al richiamo del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che invece si mostrò pronto a rispondere ai miei appeli cosi come testimonia la sua cordiale lettera a me indirizzata.
Tutto cominciò il 7 dicembre 2002 a Mignano Montelungo dove, per la prima volta, venne esposta la mostra documentaria e fotografica "Erba Rossa". Il titolo prende il nome dal mio ricordo di quando, bambina, mi recavo a visitare un cumulo di terra sotto cui era stato sepolto mio papà con i suoi compagni di morte. In quel cumulo notavo la crescita di vari ciuffi di erba diversi dagli altri. Il loro colore non era verde, ma tendeva al rosso. Capì che tutto ciò era dovuto al sangue che lì era stato versato abbondantemente. Quell'erba mi è rimasta impressa nella mente e non l'ho più dimenticata.
La mostra Erba Rossa è opera preziosa e storica del professor Felicio Corvese, il quale, quasi incredulo, ha raccolto le mie memorie, le ha curate, valorizzate e descritte molto bene come solo lui a fare. La sua grande umanità, la sua cultura e la sua grande sensibilità, sono eloquenti in ogni rigo.
Relativamente alla mostra fu realizzato anche un filmato trasmesso sulla rete pubblica Renania in Germania.
Personalmente come vittima e testimone ho avuto l'onore di partecipare a manifestazioni pubbliche e dibattiti con docenti e insegnanti, confrontandomi con varie personalità del mondo culturale e politico, sui temi della memoria e della nostra tormentata storia recente.
Per maggiori informazioni: CLICCA QUI
Questo impegno doloroso, ma molto importante della mia vita è emerso per una serie di circostanze dovute unicamente alla mia volontà di voler scrivere una pagina di storia sconosciuta e impunita, che si è consumata nel nostro Paese tra la voglia di cancellarla e l'indifferenza più totale da parte delle Istituzioni e della popolazione poco propensa a ricordare, carenti di memoria storica. Una indifferenza sorda persino al richiamo del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che invece si mostrò pronto a rispondere ai miei appeli cosi come testimonia la sua cordiale lettera a me indirizzata.
Tutto cominciò il 7 dicembre 2002 a Mignano Montelungo dove, per la prima volta, venne esposta la mostra documentaria e fotografica "Erba Rossa". Il titolo prende il nome dal mio ricordo di quando, bambina, mi recavo a visitare un cumulo di terra sotto cui era stato sepolto mio papà con i suoi compagni di morte. In quel cumulo notavo la crescita di vari ciuffi di erba diversi dagli altri. Il loro colore non era verde, ma tendeva al rosso. Capì che tutto ciò era dovuto al sangue che lì era stato versato abbondantemente. Quell'erba mi è rimasta impressa nella mente e non l'ho più dimenticata.
La mostra Erba Rossa è opera preziosa e storica del professor Felicio Corvese, il quale, quasi incredulo, ha raccolto le mie memorie, le ha curate, valorizzate e descritte molto bene come solo lui a fare. La sua grande umanità, la sua cultura e la sua grande sensibilità, sono eloquenti in ogni rigo.
Relativamente alla mostra fu realizzato anche un filmato trasmesso sulla rete pubblica Renania in Germania.
Personalmente come vittima e testimone ho avuto l'onore di partecipare a manifestazioni pubbliche e dibattiti con docenti e insegnanti, confrontandomi con varie personalità del mondo culturale e politico, sui temi della memoria e della nostra tormentata storia recente.
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Emily, Oklahoma
"I MIEI NONNI FURONO RINCHIUSI NELLE CAMERE A GAS DI AUSCHWITZ. RIUSCIRONO A SALVARSI".
“Mio nonno era un ebreo tedesco (il mio
bisnonno ha combattuto per la Germania durante la Prima Guerra Mondiale). È
nato a Worms, in Germania, ed era solito dire «In
primo luogo sono un tedesco, poi sono un ebreo.»
D’improvviso Hitler salì al potere e in Germania furono emanate oltre 400 leggi contro gli ebrei. Gli amici di mio nonno, o quantomeno quelle persone, famiglie e bambini che fino a quel momento lui aveva creduto amici, si rivoltarono contro di lui, la sua sorellina e il suo fratellino. Mio nonno e i suoi fratelli furono buttati fuori dalle scuole che frequentavano, furono obbligati a non andare più in bicicletta e per spostarsi da un posto all’altro dovevano farlo a piedi. Il mio bisnonno costruiva orologi, erano bellissimi, e a Worms lui era il più esperto. Riusciva a sistemare orologi antichi, anche del 1500. Come molti altri ebrei fu costretto a chiudere il suo negozio.
Poi, nel 1938 Hitler emanò nuove leggi, sul controllo delle armi, privando agli ebrei di possederne. Nel 1940 le SS raggiunsero la mia famiglia, obbligandoli con la forza a uscire da casa (si trattava di una casa costruita da un nostro antenato nel 1740).
Furono internati a Bergen – Belsen e nell’autunno del 1944 furono deportati ad Auschwitz, dove la mia bisnonna, il mio bisnonno, il mio prozio, la mia prozia e il fratellino e la sorellina di mio nonno furono uccisi il giorno del loro arrivo.
Mia nonna era nata in Polonia (credo nella città di Gniezno ma non ne sono sicura perché i miei nonni raramente parlavano delle loro vite prima/durante/dopo l’Olocausto, penso che ricordare per loro fosse troppo doloroso). Quando Hitler invase la Polonia, la famiglia di mia nonna era sicura che i nazisti non avrebbero mai fatto del male agli ebrei polacchi, invece le oltre 400 leggi emanate contro gli ebrei tedeschi raggiunsero anche la Polonia, comprese le leggi sulle armi.
Anche la famiglia di mia nonna fu strappata dalla sua casa, per poi essere però deportata nel ghetto di Varsavia.
Nel 1943 furono internati ad Auschwitz. Tutta la famiglia di mia nonna fu uccisa il giorno stesso, mentre lei, al suo arrivo ad Auschwitz, fu risparmiata.
Nel 1945 i russi erano sempre più vicini ad Auschwitz, e i soldati tedeschi ricevettero ordine di uccidere i prigionieri che si trovavano ancora nel campo (i miei nonni inclusi).
I miei nonni, con altri deportati, furono rinchiusi nelle camere e gas, ma prima che lo Zyklon B fosse utilizzato arrivarono le truppe russe.
I miei nonni (s’innamorarono e si sposarono dopo la fine dell’Olocausto) celebrarono le nozze nel 1946. Un paio di mesi dopo mia nonna era incinta di colui che sarebbe stato mio padre. I miei nonni definirono l’Europa un posto troppo pericoloso per mettere su famiglia, nel caso un altro dittatore come Hitler arrivasse al potere, così decisero di emigrare negli Stati Uniti.
Volevano ricominciare da zero e così si trasferirono in Oklahoma.
Mio padre, anni e anni dopo, andò al college dove incontrò mia madre. S’innamorarono, si sposarono e poi nacqui io.
Mio nonno è morto nel 2010 mentre mia nonna è deceduta nel 2011.
Credo sia meraviglioso che UN PONTE per ANNE FRANK voglia assicurarsi che gli orrori dell’Olocausto non siano dimenticati.
D’improvviso Hitler salì al potere e in Germania furono emanate oltre 400 leggi contro gli ebrei. Gli amici di mio nonno, o quantomeno quelle persone, famiglie e bambini che fino a quel momento lui aveva creduto amici, si rivoltarono contro di lui, la sua sorellina e il suo fratellino. Mio nonno e i suoi fratelli furono buttati fuori dalle scuole che frequentavano, furono obbligati a non andare più in bicicletta e per spostarsi da un posto all’altro dovevano farlo a piedi. Il mio bisnonno costruiva orologi, erano bellissimi, e a Worms lui era il più esperto. Riusciva a sistemare orologi antichi, anche del 1500. Come molti altri ebrei fu costretto a chiudere il suo negozio.
Poi, nel 1938 Hitler emanò nuove leggi, sul controllo delle armi, privando agli ebrei di possederne. Nel 1940 le SS raggiunsero la mia famiglia, obbligandoli con la forza a uscire da casa (si trattava di una casa costruita da un nostro antenato nel 1740).
Furono internati a Bergen – Belsen e nell’autunno del 1944 furono deportati ad Auschwitz, dove la mia bisnonna, il mio bisnonno, il mio prozio, la mia prozia e il fratellino e la sorellina di mio nonno furono uccisi il giorno del loro arrivo.
Mia nonna era nata in Polonia (credo nella città di Gniezno ma non ne sono sicura perché i miei nonni raramente parlavano delle loro vite prima/durante/dopo l’Olocausto, penso che ricordare per loro fosse troppo doloroso). Quando Hitler invase la Polonia, la famiglia di mia nonna era sicura che i nazisti non avrebbero mai fatto del male agli ebrei polacchi, invece le oltre 400 leggi emanate contro gli ebrei tedeschi raggiunsero anche la Polonia, comprese le leggi sulle armi.
Anche la famiglia di mia nonna fu strappata dalla sua casa, per poi essere però deportata nel ghetto di Varsavia.
Nel 1943 furono internati ad Auschwitz. Tutta la famiglia di mia nonna fu uccisa il giorno stesso, mentre lei, al suo arrivo ad Auschwitz, fu risparmiata.
Nel 1945 i russi erano sempre più vicini ad Auschwitz, e i soldati tedeschi ricevettero ordine di uccidere i prigionieri che si trovavano ancora nel campo (i miei nonni inclusi).
I miei nonni, con altri deportati, furono rinchiusi nelle camere e gas, ma prima che lo Zyklon B fosse utilizzato arrivarono le truppe russe.
I miei nonni (s’innamorarono e si sposarono dopo la fine dell’Olocausto) celebrarono le nozze nel 1946. Un paio di mesi dopo mia nonna era incinta di colui che sarebbe stato mio padre. I miei nonni definirono l’Europa un posto troppo pericoloso per mettere su famiglia, nel caso un altro dittatore come Hitler arrivasse al potere, così decisero di emigrare negli Stati Uniti.
Volevano ricominciare da zero e così si trasferirono in Oklahoma.
Mio padre, anni e anni dopo, andò al college dove incontrò mia madre. S’innamorarono, si sposarono e poi nacqui io.
Mio nonno è morto nel 2010 mentre mia nonna è deceduta nel 2011.
Credo sia meraviglioso che UN PONTE per ANNE FRANK voglia assicurarsi che gli orrori dell’Olocausto non siano dimenticati.
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Associazione di volontariato UN PONTE per ANNE FRANK numero 1548/3, costituita il 21/04/2015 presso l’Agenzia delle Entrate direzione provinciale di Livorno.
Codice fiscale: 92124870491
Codice fiscale: 92124870491